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Venerdì 23 gennaio 2004 Schede: L'uomo-marmotta
A mezzogiorno ci siamo tutti: 16 maschi 16, a Neirone, da Bain: una vecchia osteria che dei tempi andati conserva la decadenza accogliente, conviviale; le cose moderne - come i tavoli di formica - risalgono agli anni Sessanta. A mangiare cominceremo alle 12,30 ma intanto siamo già lì. Puntualità e orario fanno parte del DNA del gruppo: l'operaio alle 12 va in mensa. Ci aspettano tagliatelle, in bianco per dar risalto al seguito: stocco in umido e baccalà fritto. Tavolata lunga e stretta, tipo fratina, e a soffrire è la conversazione; praticabile solo tra vicini o dirimpettai; 4 o 5 persone al massimo. La ricomposizione avviene al momento del caffé, quando le sedie sono spostate vicino ai punti forti, quelli presidiati dai filosofi e dagli intrattenitori. Sono anni che ci vediamo e che succede così. Anni in cui il gruppo ha registrato momenti di maggiore o minore popolarità. A volte qualche uscita definitiva: anche tra noi si muore.
Sul formarsi del gruppo dovrei scrivere parecchio senza la certezza di riuscire a spiegare. Così anche sulla mia presenza - non operaio ma professore di storia - e sulla antica amicizia che mi lega a molti dei presenti. Meglio lasciare il compito alla cronaca di questo e degli incontri che seguiranno. Perché l'incarico che ho ricevuto è di riferire, a partire da oggi 23 gennaio 2004, certe conversazioni che "forse" avremo. Ecco perché è meglio cominciare dal luogo e dal menu, utile più delle date quando dovremo ricapitolare le cose discusse. Qualcosa che permetta di dire "sai la volta del baccalà da Bain, quando il tale aveva detto che...". Gli appunti che prenderò ogni volta - finché non si deciderà diversamente, riguarderanno un tema provvisoriamente indicato come "il museo degli operai".
"Museo degli operai" è frutto di una battuta fatta a tavola proprio oggi, 23 gennaio 2004. Anno speciale: come ripetono da settimane stampa e Tv locali, sarà l'anno dell'ingresso della nostra Genova nel salotto europeo. Genova "capitale europea della cultura": difficile non lasciarsi prendere la mano. Tra l'altro ha comportato un sostanzioso arrivo di fondi speciali per fare questo o quel restauro: uno scoppiettio di iniziative - mostre, specialmente - decantate come se già fossero coronate dal successo. Sufficienti comunque a mettere in mezzo me, "intellettuale" del gruppo e pertanto sospetto di tresche con gli organizzatori di cultura. Naturalmente tutti sanno che non è così ma in questo modo mi sfottono due volte: perché sono "sospetto" e perché sono "marginale". Fa parte del gioco che loro chiamano, convenzionalmente, "menaggio", cioè "presa per il culo", ed è lo svago preferito del gruppo. Come del resto lo era - e per alcuni lo è ancora - in fabbrica, sul lavoro. Ci conosciamo da più di 30 anni - la confidenza è molta - e ogni volta questo è il gioco. Un rituale buono a confermare stagioni e amicizie che non temono la presa in giro.
Mentre andiamo in libera sul mitico 2004, Lino gorgoglia la sua, tra il lamentoso e il provocatorio com'è nel suo stile. Spinge la testa fuori dal maglioncino falsogriffato e, in dialetto, "visto che ora fanno un museo per tutto dovrebbero farne uno anche per noi. Gli operai ormai sono 4 gatti ma, ai nostri tempi, saremo stati 60 o 70 mila. Di musei ce ne spetterebbe almeno uno e di quelli grossi". Tra i presenti, Lino non è l'unico cultore della teoria del risarcimento, ma qualcosa del suo carattere fa sì che, le sue parole siano prese di mira di più di altri. Ecco un paio delle battute con cui, oltre le risate, è stata accolta la sua proposta.
- Non ti basta averci passato 37 anni? Vorresti anche un museo...
- Se fanno un museo degli operai e scoprono che siamo ancora vivi finisce che questa volta non ci fanno più uscire.
In pieno sghignazzo Ugo ha fatto cadere la sua. Tornitore, pensionato, sensibile al lato filosofico dei problemi, ama annunciare quel che sta per dire con smorfie umoristiche che hanno il potere, oltre che di zittire l'uditorio, di creare l'attenzione necessaria ("ho lavorato anche in una claque", m'ha detto una volta). Ugo la battuta di Lino l'ha presa sul serio. I musei - inizia compunto - si fanno per conservare le opere del passato a memoria del presente, o no? Allora, visto che gli operai non ci sono più, perché non si dovrebbe fare un museo anche per loro? Ma a questo punto, ha aggiunto, gli era sorto un dubbio. "Ogni tipo di museo ha i suoi oggetti da esporre; in un museo degli operai cosa dovrebbe esserci? Il mio tornio? Ma il mio tornio non significa niente: piuttosto è il modo di usarlo, le bolle di cottimo che ci dovevo realizzare sopra, la lite con l'imbragatore che non arrivava e mi faceva perdere del tempo, il freddo caino che c'era d'inverno... Ma come si fa a esporre sta roba?" Ugo fa una pausa associandola a un'altra delle sue smorfie del genere scettico: "Forse ci vorrebbe un film: ma anche uno capace di farlo e in più uno spettatore che capisca cosa sta vedendo...". Pausa d'effetto e poi conclusione, scoraggiata: "ma è mai possibile?".
Eravamo a questo punto e la questione non aveva ancora destato un particolare interesse quando Ezio ha preso il pallino. Operaio falegname - poi diventato impiegato - viene dai cantieri navali e non appartiene al mondo dell'elettromeccanica come la maggior parte dei presenti. Nel gruppo è stato introdotto da me. E' una facoltà che i compagni mi accordano. Ne ho già approfittato portando colleghi dell'Università. Ezio ha modi accattivanti: sorridente, toni sommessi, dotato di humour, enigmista a cinque stelle, non si tira indietro neppure di fronte ai quesiti più improbabili. Infatti si lascia tentare dalle parole di Ugo. "Per non dire - commenta - che basta cambiare fabbrica o periodo, anche solo di qualche anno, e tutto cambia. Quando io ho cominciato a lavorare al Cantiere di Sestri, dopo la guerra, c'era ancora il maestro d'ascia con la marmotta ma, dopo pochi anni, già non c'era più. Vorrei sapere chi oggi sa cos'è la marmotta".
Infatti tra i presenti non lo sa nessuno. O meglio: tutti sanno che la marmotta è un animale selvatico. La battuta di Ezio è accolta con simpatia ma anche con distacco: non appartiene al gruppo storico; è un falegname e viene dal Cantiere. Nella gerarchia morale dei settori metalmeccanici che accomuna i presenti, la costruzione delle navi viene dopo, magari non troppo, ma dopo quella dei turboalternatori. Ezio intanto seguita a pensare alla marmotta; alla sua maniera, disegnando. Lo fa sul foglio di carta steso a mo' di tovaglia sulla tavola dove abbiamo mangiato: traccia, cancella, ritocca come se cercasse di mettere a fuoco i ricordi. Ha una buona mano e, mentre disegna, spiega. Lo fa a voce bassa come parlasse tra sé e ci guadagna una certa ammirazione. "Portava la cassetta così - dice - poi ci si sedeva sopra a sto modo quando lavorava. Perché il suo lavoro era di infilare.... e usava un martello strano...". Così nel disegno di Ezio la cassetta passa dalla schiena del maestro d'ascia, dove lui la tiene appesa, a sotto le chiappe del medesimo mentre lavora a calafatare il ponte della nave.
Ezio non è soddisfatto del disegno; non lo convince la posizione della spalla del maestro d'ascia; cancella, riprova. Non pensa al museo ma al maestro d'ascia che ha visto 50 anni prima con la marmotta a tracolla. Lo osserviamo incuriositi mentre disegna. C'è l'attrezzo e c'è l'operaio, il posto dove lavora, il lavoro che fa. Poi, sul foglio, in bell'ordine, compaiono gli altri attrezzi che, custoditi nella marmotta, completano il profilo professionale del maestro d'ascia.
Pensiero fatto da tutti contemporaneamente: disegni del genere potrebbero essere utili al museo che stiamo inventando. Infatti uno ha chiesto: "E' con questa roba qui che dovrebbe essere fatto il museo degli operai?"
Le risposte sono quelle immaginabili: sì, no, forse, però ecc. Sono seguite altre domande: ma nel museo dell'operaio non si dovrà parlare anche di orario, bolla, tempo e capi? E con quali materiali possono diventare una esposizione? Con disegni? E quali? Così, improvvisamente, sono apparsi il tempo, la gerarchia e il controllo, temi a cui si capisce che tutti i presenti attribuiscono una grande importanza anche se ognuno aspettava che fosse il vicino a citarli.
Non vorrei bruciare tutte le cartucce in un colpo. Non potremmo parlarne durante il prossimo incontro? chiedo. E propongo che ognuno si impegni a portare in quella occasione un elenco - "anche sommario" - delle cose, animate o inanimate, di quello che gli viene in mente che, a suo parere, dovrebbero stare in un museo degli operai. Così - concludo - potremo parlare di cose concrete e alla fine quello che verrà fuori sarà il museo, il nostro museo degli operai.
Ai miei amici le parole "nostro museo" non piacciono. La loro idea è che, se museo ha da essere, dovrebbe essere "il museo" e non "un museo" o peggio ancora "il nostro museo", cioè il museo dei presenti. Lino si fa interprete: "Ma alla fine tutto sto museo sarebbe solo di noi che siamo qui, dei posti dove abbiamo lavorato, e solo del periodo che ci abbiamo lavorato; perché poi risulta che 10 anni dopo che ero andato in pensione io le cose eran cambiate… E se stiamo anche solo ai tempi miei non è detto che alla Fonderia si vivesse come all’Asgen o al Meccanico…".
L’idea, comune un po’ di tutti, è che il risultato, dovrebbe essere universale o comunque aspirare all’universalità là dove le esperienze che raccontiamo o a cui ci riferiamo sono particolari, storiche. Ma come si fa a fare una cosa che abbia un significato generale muovendo da esperienze particolari? La soluzione - è sottinteso - dovrei trovarla io. M’arrampico: "qui l’universale è ciò che lega le persone che siete - la vostra storia familiare, la vostra istruzione, i vostri luoghi di provenienza - a quel lavoro, quella fabbrica, quella vita sindacale, quelle attese...". Colgo espressioni ammutolite. Lino, con delusione malcelata: "allora sarebbe piuttosto un metodo; non un museo…". Dico che la questione è complessa e sarebbe meglio accantonarla. "Proviamo a ragionare sulle cose", insisto. Si decide - così tanto per andar oltre - di posteggiare la questione in un fascicolo "in attesa". Di intitolati così ne hanno visti sulle scrivanie dei capi reparto e dei capi officina. Ora ne abbiamo uno simile anche noi: un segno dell'ufficialità del nostro percorso; ridiamo.
Ci lasciamo nel primo pomeriggio con l'impegno di stendere piccoli elenchi di cose da mettere nel museo. Il mio compito sarà un po' quello del notaio: resoconto delle riunioni e delle eventuali proposte. Intanto viene preso di mira Pacian, uno del gruppo noto per la scarsa dimestichezza con la scrittura. E' finalmente venuto il momento - gli dicono seri - di provare che i suoi detrattori hanno torto. Si aspettano da lui un lungo elenco scritto di suo pugno. E' il loro gioco preferito che ricomincia.
Prossimo appuntamento tra circa due mesi. Temo che lasciata la tavola pochi si ricorderanno del "museo". Mentre stendo il resoconto della giornata mi chiedo se la prossima volta che ci vedremo qualcuno mi chiederà di farglielo leggere. Allego anche i disegni fatti da Ezio mentre "marmottava".
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Manlio Calegari
Il Museo degli Operai
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Indice
Venerdì 23 gennaio 2004
Sabato 14 marzo 2004
Sabato 17 aprile 2004
Venerdì 14 maggio 2004
Venerdì 11 giugno 2004
Sabato 10 luglio 2004
Giovedì 26 agosto 2004
Sabato 9 ottobre 2004
Sabato 13 novembre 2004
Sabato 4 dicembre 2004
Sabato 18 dicembre 2004
Postfazione 2007
Frammenti di un museo virtuale
L'album di Ezio Bartoli
Il taccuino di Pippo Bertino
La memoria di Gino Canepa
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